ARCHEOLOGIA

ALBA LONGA E LA DINASTIA DEI MITICI “RE ANTENATI”

 ALBA LONGA

LA DINASTIA DEI MITICI “RE ANTENATI” 

Il mito dei re di Alba Longa si sovrappone al primitivo culto degli antenati albani, mantenendone però le caratteristiche e attribuzioni. Infatti, Latino e Tarchezio – gli unici re di cui abbiamo notizie sicure riguardo alla loro cronologia che ci consentono di inquadrali all’età arcaica – sono ugualmente percepiti come antenati, ed è probabile che molti altri mitici re di Alba inseriti nelle numerose liste dinastiche (qui sotto elencate da Trieber) che ci sono pervenute (assai rimaneggiate in età tardo repubblicana), provengano nello stesso modo da antichissimi racconti relativi a mitici antenati albani vissuti in tempi remotissimi. In questa sede inizieremo dal culto domestico del focolare e degli antenati (Lari) della prima età del ferro (fine XI – IX sec. a.C.), per poi analizzare i due secoli successivi, durante i quali il culto dei Lari  assume un carattere ben diverso, che prelude alle dinastie albane (ad esempio i Silvii) e poi latine.

 

      Rappresentazione schematica delle varie fasi in cui si struttura il mito di Alba Longa
                                                             (La dinastia citata come esempio di una delle 17 liste è di Dionigi di Alicarnasso)                                                                 

Elenco dei re di Alba che riassume 15 delle 17 liste (Trieber 1894)

 

I PRIMORDI
Nei pressi di Roma, un grande vulcano iniziò la sua attività circa 600.000 anni fa. L’edificio vulcanico crebbe a dismisura, fino a quando, 360.000 anni fa, crollò sotto il proprio peso. Esattamente al centro si elevò poi un altro vulcano più piccolo; infine, con l’occlusione del suo camino principale, iniziarono le grandi esplosioni laterali che formarono i laghi albani. L’attività eruttiva cessò circa 30.000 anni fa. Da allora immense e sterminate foreste impenetrabili si sono impadronite di ciò che rimaneva dei due recinti vulcanici, le cui cime ancora oggi si conservano perfettamente.

La magia di quel mondo selvaggio rimase incontaminata per millenni, fino a quando i primi gruppi umani furono attratti dalla sacralità di quella natura. Quelle selve misteriose divennero col tempo le dimore divine di entità sfuggenti, percepite appena come magiche presenze. Primitivi padroni delle sterminate e impenetrabili selve albane, il picchio e il lupo divennero le antichissime divinità primordiali di quei luoghi. Il picchio dominava il cielo, gli alberi e il mistero delle loro cavità; il lupo era il dio delle foreste e del sottobosco. Nella millenaria evoluzione che trasformò questi due animali in Pico e Fauno – i primitivi eroi civilizzatori di Alba e del mondo latino – si sono cristallizzati i complessi processi religiosi che li hanno tramutati e descritti come fondatori e re, principali protagonisti primordiali delle leggende più antiche.

 

ILCULTO DEGLI ANTENATI NELLA PRIMA ETA’ DEL FERRO
Il millenario culto domestico degli antenati venne stroncato dall’editto dell’imperatore Teodosio del 398 e nelle case i larari vennero vietati assieme al culto del focolare. I due giovinetti festanti del larario pompeiano (Fig. 1a) che compaiono anche in altri larari di Pompei ugualmente rappresentati ai lati, li ritroviamo, nella medesima posizione speculare, sulla porta di un’urna cineraria a forma di a capanna rinvenuta a Castel Gandolfo, più antica di oltre mille anni (Fig. 1b).

 

 

 

 

 

 

 

                                                                                                                                                                                          

                               Fig. 1a                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                Fig. 1b 

Da tempi immemorabili, la capanna veniva percepita come entità posta al centro dell’universo, secondo una visione cosmocentrica che suddivideva lo spazio circostante in cerchi concentrici, occupati prima dall’orto, poi dai campi, dai boschi, dalle strade che portano alle fonti, e infine, alle selve. Questo mondo, era protetto dai Lari, gli antenati, ed il focolare, posto al centro della capanna, divenne l’epicentro sacrale di quello spazio. La fiamma, sempre accesa, si trasformò nella prima divinità domestica, e il ruolo delle bambine e fanciulle che l’accudivano, acquistò con il tempo la celebre dimensione sacerdotale delle vergini vestali.

Lo sviluppo religioso delle genti albane di età protostorica segna il punto di arrivo della millenaria esperienza culturale precedente, della quale le immense e impenetrabili foreste del Vulcano Laziale raccontavano la storia. Secoli dopo, il ricordo di quelle selve primordiali in cui vissero gli antenati albani venne probabilmente perpetuato nella leggendaria dinastia dei re di Alba, i Silvii, che secondo la tradizione, regnarono per molte generazioni sul loro monte sacro, il Monte Albano. Tra essi, Rea Silvia, madre di Romolo e Remo – che notoriamente le fonti antiche collegano al mondo albano – divenne la prima vestale della storia.

In questa prospettiva, assumono straordinaria importanza le tre tombe femminili ad incinerazione rinvenute a Rocca di Papa, Grottaferrata e Castel Gandolfo, datate tra la fine dell’XI e X sec. a.C., giustamente collegate di recente al culto del focolare, che in futuro sarà proprio quello delle vestali (in questo periodo il rituale funebre dell’incinerazione era riservato ai membri più importanti delle comunità protostoriche)

Lo stesso atto della statuina fittile di S. Lorenzo Vecchio a Rocca di Papa, rappresentata come offerente – atto probabilmente ancora rivolto agli spiriti degli antenati non certo a divinità – lo ritroveremo secoli dopo, nella famosa tomba principesca femminile del Vivaro di Rocca di Papa.

Nella prima età del ferro, il mondo dei Lari, gli spiriti buoni come li definisce sant’Agostino citando Apuleio, si può forse riconoscere in alcune rappresentazioni distribuite in ambito centro tirrenico attraverso coppie di personaggi, come quelli che appaiono sulla porta dell’urna a capanna di Castel Gandolfo e Tarquinia, oppure resi in bronzo, rinvenuti accanto ai due animali aggiogati nella tomba 13 di S. Palomba presso Ariccia.

Questi ultimi vanno intesi come aratori, e, probabilmente, come tali, protettori dei campi, allo stesso modo delle celebri composizioni campane più recenti, le quali, più esplicitamente, esprimono la sacralità della rappresentazione attraverso l’individuo con il vomere reso con entrambi i sessi che incarna i due momenti della semina e del raccolto.

Accanto alle tre tombe femminili menzionate, nelle tombe maschili albane il ruolo di capi politici e religiosi è rappresentato, oltre che dalle armi, dai coltelli e soprattutto dai doppi scudi; eccezionalmente, rispetto alle altre necropoli laziali, il loro prestigio viene sottolineato anche dai carri.

Questo magnifico esemplare in miniatura da S. Palomba presso Ariccia è del tutto simile ai carri di dimensioni reali che si rinvengono nelle prestigiose tombe laziali dei secoli successivi. Il sospetto che sui Colli Albani, già in questa fase (fine X inizi IX sec. a.C.) sia precocemente iniziato il lungo processo di differenziazione sociale culminato nella seconda metà dell’VIII sec. a. C. con l’affermazione delle aristocrazie nel Lazio, è ora più che legittimo.

Riassumendo, benché si manifesti in forma embrionale, la dimensione sacerdotale dei futuri sacerdozi dei Sali e delle Vestali consacrati rispettivamente a Marte e Vesta, è chiaramente documentata archeologicamente nel mondo Albano già a partire dalla fine dell’XI sec. a.C. Sotto il profilo cultuale, di straordinaria importanza si rivelano le scoperte di abitati e relative tombe risalenti agli inizi dell’età del ferro, recentemente rinvenuti tutt’attorno alla vetta del Monte Albano, che documentano la presenza precoce di gruppi umani attivi presso l’area sacra presente nel loro territorio dove sono attestati, già in età assai remota, i culti primordiali. Essi sono gli abitanti di Cabum e non è un caso che nei secoli a venire i sacerdotes Cabenses rappresentarono per sempre, prima e dopo la dominazione romana, il collegio sacerdotale addetto all’area sacra di Giove Laziale sul Monte Albano.

IL CULTO DEGLI ANTENATI NELLA SECONDA ETA’ DEL FERRO
Nel territorio albano, nonostante la pressoché totale assenza di indagini archeologiche, sono state rinvenute in vari punti ben sei tombe di altissimo livello relative alle aristocrazie locali, scavate senza alcun controllo.

Il lusso funerario nel mondo albano è ben rappresentato dalla tomba principesca del Vivaro di Rocca di Papa che si pone cronologicamente agli inizi dell’ultimo quarto dell’VIII sec. a.C. In un monumentale sepolcro costituito da lastroni di tufo disposti a contrasto che riconducono all’idea della casa, fu rinvenuta una donna recante in mano una coppa d’argento. Ella fu deposta con un ricchissimo corredo personale costituito da numerosi oggetti d’oro, d’argento, ambra e bronzo; il corredo d’accompagno, rinvenuto accanto, era composto da quattro lebeti in bronzo e da altri oggetti sempre in bronzo di vario tipo, alcuni dei quali importati dal vicino oriente, e da vasellame ceramico.

(Per saperne di più sulla Tomba Principesca del Vivaro: http://www.osservatoriocollialbani.it/2019/12/13/la-tomba-della-principessa-del-vivaro-di-rocca-di-papa-di-3000-anni-fa/)

Il rituale funebre perpetua, con grande rigore, l’antichissima tradizione albana di una donna (materfamilias non vestale in questo caso) ancora una volta deposta nell’atto dell’offerente, mentre le due tazzette miniaturistiche, un unicum nel panorama laziale di questo periodo, rispecchiano il profondo rispetto nei confronti della secolare tradizione albana che affonda le radici nell’antichissimo rito ustorio a cui si accompagnava la miniaturizzazione degli oggetti di corredo.

Sui Colli Albani, nella seconda età del ferro, tra VIII e VII sec. a.C., prosegue il notevole incremento demografico, già iniziato e ampiamente documentato dalle numerose necropoli della prima età del ferro, che prelude alla nascita di ben cinque città: Tuscolo, Ariccia, Lanuvio, Velletri e Labico (Colonna). Disposte a corona lungo tutta la cinta craterica maggiore, le curie gentilizie principali sono tutte poste su siti ben protetti da difese naturali (esattamente come tutti i centri latini di pianura) e si circondano di abitati minori a vocazione prevalentemente produttiva, distribuiti in prossimità delle risorse economiche, per lo più nelle aree pianeggianti; alcuni sono disposti ai confini degli ambiti gentilizi (ad esempio Santa Palomba), con compiti di controllo.

Rispetto ai centri latini di pianura, l’organizzazione territoriale albana basata sulle curie gentilizie è completamente diversa. Infatti la Civiltà albana presenta uno sviluppo culturale millenario completamente diverso rispetto ai centri di pianura. Questi ultimi sono tra loro indipendenti, isolati entro i propri confini ed i contatti tra loro sono occasionali (nella tavola sotto sono rappresentati solo i maggiori centri latini per dimostrare il rapporto spaziale con la distribuzione delle curie gentilizie albane).

Al contrario, nel territorio albano convivono da sempre gruppi umani che per secoli hanno interagito tra loro elaborando e sperimentando livelli d’integrazione completamente estranei al resto del Lazio, forse in parte riscontrabili solo a Roma. Per questi motivi, la regione albana può essere intesa come una sorta di Lazio nel Lazio. La nomina di un “capo in guerra” doveva rendersi sovente indispensabile e in questa circostanza non sorprende l’affermazione di G. Licinio Macro in merito alla nascita della primitiva figura del dittatore (dictator o dicator) presso gli Albani, magistratura poi trasmessa a Roma.
Anche le genti albane ora fondano il loro potere su una solida struttura sociale gerarchizzata, rivendicando la proprietà della terra entro precisi confini ed il diritto della sua trasmissione ereditaria (heredium), mentre la notevole crescita demografica, forse dovuta all’aggregazione di gruppi subordinati (clientes), garantisce un notevole sviluppo economico e un conseguente surplus di ricchezza. In questa prospettiva, nell’ambito delle curie gentilizie albane, il culto degli antenati assume ora un carattere per certi aspetti funzionale, ben diverso da quello dei secoli precedenti, poiché questo culto, essendo negato alla clientela a livello istituzionale, garantisce e legittima per sempre la proprietà della terra al nuovo ceto aristocratico dominante.

E’ questo il periodo in cui gli Albani, secondo la tradizione, cominciarono ad esprimere la loro unità religiosa nei riguardi della divinità (o delle divinità) dalle caratteristiche ctonie venerate sul Monte Albano (come ad es. Dis Pater, Liber Pater) – precedenti al culto di Juppiter Latiaris – attraverso le offerte di agnelli, latte, formaggio e focacce, tipiche delle antiche comunità pastorali, quindi da consuetudini precedenti all’introduzione del vino nel corso dell’VIII sec. a.C., bevanda tipica di Giove.

 

LATINO RE DI ALBA

Con la scoperta del sito di Alba e del suo rilevante substrato leggendario che trova origini nel mondo albano e che matura definitivamente nell’ambito dei popoli del Latium vetus, riemerge prepotentemente il ruolo centrale di Latino, re di Alba e poi, alla sua morte, venerato come divinità suprema dei Latini sul Monte Albano. Nel contempo, la sua artificiosa “duplicazione” (in cui viene inteso come re degli Aborigeni di una città fittizia nella saga lavinate, oppure come Latino Silvio o semplicemente Latino nelle varie liste dei reges Albanorum palesemente artefatte soprattutto nel I sec. a.C.) appare ora ridimensionata, circoscritta, funzionale solo alla tarda elaborazione del mito di Alba Longa. In tal modo vengono a cessare le sue infinite peregrinazioni scaturite dal dualismo albano – lavinate, sorto progressivamente e maturato in particolare dopo la fatidica data del 338 a.C. che segna la data della sconfitta della lega latina.

Fino ad allora, prima di diventare agli occhi di Roma (e di Timeo di Tauromenio)  la civitas religiosa  che custodiva i sacra troiani, Lavinium era una delle tante città laziali appartenenti alla lega latina che salivano sul Monte Albano per partecipare al rito annuale della distribuzione della carne, comunione che certificava la sua appartenenza all’ethnos latino. Ciò nonostante, Lavinio ha tentato di contendere al Monte Albano il prestigio religioso , come mostra il celebre racconto del trasferimento dei Penati sul Monte Albano ed il prodigio del loro ritorno. La leggenda di Enea era nota a Lavinio già nel VI sec. a.C. ed era ben consolidata alla fine del IV sec. a.C., come dimostrano i numerosi culti ed in particolare l’heroon di Enea, sacello costruito entro il tumulo e a ridosso di una tomba a cassone della metà del VII sec. a.C. 

Solo Lavinio, grazie alla sua posizione lungo la costa laziale e alla straordinaria fioritura religiosa, poteva dunque offrire a Roma una solida base leggendaria incentrata sull’arrivo di Enea, perfettamente funzionale alla celebre vulgata che prelude ad Alba Longa, che vede nel matrimonio tra Enea e Lavinia, figlia di Latino, re degli Aborigeni, il nucleo fondante della fusione tra Troiani e Latini ed infine in Enea, figlio di Anchise e Afrodite, l’eroe capostipite della genealogia romana.

 

TARCHEZIO RE DI ALBA

Il nome di Alba appare in quello che doveva essere uno dei tanti racconti “filo etruschi” diffusi nel Lazio del VI sec. a.C. Si tratta della celebre variante sulla nascita dei gemelli riportata da Plutarco. In esso troviamo nominati una coppia di gemelli, che non hanno ancora un nome, esattamente come il corso d’acqua nel quale furono gettati da un crudele re di Alba, un etrusco di nome Tarchetios, quasi certamente, a detta di tutti gli studiosi, un personaggio che riporta ai Tarquini. L’autore del racconto, fu, a detta dello storico di Cheronea «un certo Promathion che ha composto una Storia d’Italia», il quale, secondo autorevoli studiosi, sarebbe vissuto attorno al 500 a.C. 

Se nel corso del VI secolo a.C. si poteva immaginare – addirittura quale re di Alba – un antenato evidentemente vissuto qualche secolo prima e di chiare origini etrusche, la forzatura appare concepibile solo ammettendo l’accostamento del racconto ad altri molto simili, già esistenti localmente e altrettanto famosi a quei tempi, i quali contemplavano una serie dinastica di antenati mitici o, se vogliamo, «re» albani, in cui Tarchezio poté essere inserito.

L’annotazione può sembrare curiosa, ma lo diventa molto meno considerando che nel corso del VI sec. a.C., quando le città albane quali Tusculum, Aricia, Lanuvium, Velitrae e Labicum erano autonome, se ancora veniva conservata una serie originale di personaggi – intesi come capi, antenati o altro – essa non poteva che scaturire da un patrimonio mitico comune. In questa circostanza, è probabile che tale patrimonio, a sua volta, si ricollegasse a un nucleo leggendario elaborato dagli Albani in epoche assai risalenti; al contrario, sarebbe impensabile immaginare una contaminazione o manipolazione di quella lista ad opera dei Romani o di chiunque altro, come invece avvenne sistematicamente nei secoli successivi, come già si avverte peraltro nello stesso racconto di Tarchezio.

Nella versione originale albana, questi personaggi illustri, ciascuno dei quali si ricollegava forse alla nascita delle singole città albane, dovrebbe porsi a valle di un processo di stratificazione mitologica in cui la serie dei «re» si intrecciò, fino a sovrapporsi, a quella primitiva degli antenati divinizzati – probabilmente espressione delle antiche curie gentilizie raggruppate in vari punti del massiccio vulcanico  – forse confluita poi nella figura «comunitaria»  di un fondatore mitico di Alba.

L’antichità della serie albana di antenati o «re» mitici è comunque garantita, se nel corso del VI secolo vi si poteva inserire tranquillamente un re di chiara estrazione etrusca: ma che senso aveva, nel VI secolo, inserire forzatamente un re etrusco nella serie preesistente degli antenati o “re” di Alba, quando tutto era mutato e di Alba Longa, distrutta molto tempo prima secondo la tradizione, non si parlava più da secoli? Il paradosso aiuta a comprendere la tarda apparizione del mito di Alba Longa (fine III se. a.C.) , ma il fatto stesso che si dovette ricorrere a questo espediente, sottolinea la necessità e quindi l’enorme importanza per la componente etrusca romanizzata di vantare un antenato tra gli Albani. In questo caso le implicazioni sarebbero considerevoli, poiché – oltre alla vitalità di Alba intesa come “regia” nel VI sec. a.C. – verrebbe direttamente coinvolta l’intera struttura politico-religiosa comunitaria albana.

A ben vedere, in questo periodo, l’inserimento artificioso di un antenato etrusco, addirittura come «re», non poteva che creare divisione tra le città albane che avevano condiviso, da molti secoli, oltre al patrimonio mitologico comune legato agli antenati o «re» che siano, anche il luogo di culto comunitario, posto sulla vetta più alta nel cuore del Latium vetus: il Monte Albano.

Inoltre, sappiamo bene che vantare un antenato a quei tempi rappresentava la via maestra per legittimare la proprietà della terra. Stiamo parlando di territori albani, naturalmente, e se davvero Tarchezio riporta ai Tarquini, come sostengono all’unanimità tutti gli studiosi, le implicazioni sarebbero notevoli, poiché il collegamento con Tuscolo potrebbe diventare diretto. Non abbiamo notizie di rapporti matrimoniali tra tuscolani ed etruschi nei momenti più antichi del VI secolo, ma il matrimonio documentato dalle fonti antiche tra Ottavio Mamilio e Tarquinia, figlia di Tarquinio il Superbo, sottolinea che il connubio tra Mamili e Tarquini, quindi tra tuscolani ed Etruschi romanizzati, doveva aver sollevato numerosi problemi (primo tra tutti quello religioso, relativo ai rapporti delle singole città con il santuario federale posto sul Monte Albano), con l’inevitabile reazione delle altre città albane, essendo tra l’altro Tarquinio ancora re di Roma.

Naturalmente, altri motivi di tensione dovevano provenire dalla situazione creata dalla discendenza mista tuscolana; ciò comportava un grave dilemma e un comprensibile imbarazzo che, almeno per i tuscolani, solo il fantomatico re-antenato Tarchezio poteva risolvere: nei racconti originali doveva figurare certamente come un «re buono», s’intende, che però alla fine del VI secolo venne subito travolto dall’odio smisurato nei confronti di Tarquinio il Superbo, da cui scaturì la nuova versione del racconto denigratorio, in cui Tarchezio appare crudele come il tiranno di Roma, sicuramente di ispirazione romana, magari con il plauso di qualche città latina o albana – tra cui forse proprio l’Aricia di Turno Erdonio (fatto uccidere da Tarquinio il Superbo durante le adunanze politiche dei Latini presso la Fonte Ferentina, oggi nota come Fontan Tempesta). 

 

LA NASCITA DEL MITO DEI GEMELLI
La leggenda di Tarchezio è ambientata sui Colli Albani. Ad Alba si trova la regia di Tarchezio, nel cui focolare appare il dio fallico. Tethys, l’indovina etrusca consultata dal re, aveva predetto che dall’accoppiamento con il dio sarebbe nato un figlio predestinato a grandi imprese; ma la figlia del re, disobbedendo al padre, si rifiuta di accoppiarsi, facendosi sostituire di nascosto da un’ancella. Nascono invece due gemelli, e il re, accortosi dell’inganno, ordina al servo Terazio di ucciderli. Ma questi, impietosito, li abbandona sulle rive di un fiume, dove verranno allattati da una lupa e nutriti dagli uccelli. Diventati adulti, spodesteranno il crudele re.

Sul problema del “fiume” che nasce da Tuscolo e sulle sue fondamentali implicazioni nell’ambientazione del mito dei gemelli, vedi: http://www.osservatoriocollialbani.it/2017/11/05/alba-alba-longa-tuscolo-e-il-suo-fiume-scomparso/ 

Dobbiamo innanzitutto sgombrare il campo da vecchie formule: la leggenda non ha nulla a che vedere con quella più celebre della vulgata; al contrario, rappresenta l’ultima versione di un repertorio leggendario ben diverso, elaborato molti secoli prima della vulgata, esclusivamente funzionale allo sforzo egemonico dei Tarquini nel Lazio. Cominciamo col dire che i gemelli non sono affatto antesignani di Romolo e Remo, dal momento che non hanno un nome: per questa ragione uno di loro non fonderà Roma, non le darà il suo nome, non svolgerà affatto il ruolo di eponimo come traspare implicitamente dal racconto frammentario tramandato da Plutarco che appunto inserisce questa “curiosa narrazione” nella vita Romuli.

Siamo tutti d’accordo sul fatto che i Tarquini – a prescindere dal tipo di supremazia esercitato su Roma – abbiano nel contempo tentato di espandersi e sottomettere le città latine . Ma se da un lato era stato relativamente facile e agevole conquistare una alla volta alcuni importanti centri latini (Collazia e Gabi rappresentano probabilmente solo una piccola parte delle loro conquiste), la sottomissione degli Albani si era rivelata evidentemente assai complicata e difficile. Come risulta dalle fonti antiche, nessun esercito si era mai avventurato nel vastissimo e popoloso territorio interno costituito dagli altopiani delle valli albane. Una delle risposte risiede certamente nella nascita, avvenuta per la prima volta tra gli Albani della figura del dittatore (dictator), il capo in guerra, eletto nei momenti di pericolo. In base a queste secolari esperienze, le città albane avevano successivamente ereditato la capacità di difendersi assai bene.

Quindi, l’alleanza matrimoniale con Tuscolo, che secondo le fonti avviene solo negli ultimi decenni del VI secolo con Tarquinio il Superbo, rappresenta in modo eloquente la miglior risposta a una strategia che aveva dovuto abbandonare, almeno in quest’area, l’uso della forza.

Le fonti antiche sono assai vaghe su queste vicende e non ci aiutano a capire come si sia arrivati a configurare addirittura come re di Alba personaggi romani di chiara origine etrusca. Sotto questo profilo, il racconto di Tarchezio può essere di grande aiuto. Esiste infatti una vistosa lacuna riguardo ad una delle prerogative fondamentali assegnate dalle fonti antiche ad Alba Longa: la fondazione in età assai antica di numerose e importanti città del Lazio. Come si è arrivati a una tale discrasia? Solo l’epopea dei potenti Tarquini poteva vantare una simile grandiosa visione unificante e un apparato in grado di elaborare un patrimonio leggendario rispondente al loro sforzo egemonico nella regione, funzionale alla sottomissione delle città latine: non certo il vetusto mondo delle curie gentilizie albane e tanto meno – come purtroppo si è creduto per troppo tempo – quello dei villaggi di capanne immaginati o inventati di sana pianta attorno al Lago Albano che avrebbero formato l’Alba Longa dell’età del Bronzo o della prima età del Ferro.

In questa prospettiva, ai gemelli “etruschi” presenti nelle leggende elaborate dai Tarquini nel corso del VI secolo a.C. non poteva che essere affidato il ruolo primario di fondatori di numerose e importanti città del Lazio. Sotto questo punto di vista, il potere degli antenati dei Tarquini che venivano intesi come re di Alba, doveva apparire assai efficace sotto il profilo propagandistico.

Ma il racconto di Tarchezio, così come ci è pervenuto, non sembra affatto benevolo nei confronti dei Tarquini, e appare piuttosto una parodia che riflette fonti latine ostili. L’antenato Tarchezio figura infatti come un crudele fantoccio, privo di autorità, al quale non obbedisce nessuno, a cominciare dalla figlia fino al servo Terazio. E soprattutto i gemelli, qualunque siano le imprese alle quali erano destinati, gli sono perfetti estranei: i figli di un’ancella non appartengono alla stirpe dei Tarquini e da essi il re verrà detronizzato. A guardar bene, il sottile dileggio non risparmia nemmeno un’altra etrusca, l’indovina Teti, dal momento che la sua profezia risulterà in parte errata (per la nascita non di un figlio, ma dei gemelli).

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