Hottenroth 1862
L’area posta a nord-est del territorio di Rocca di Papa custodisce una realtà archeologica ancora da scoprire e una storia tutta da scrivere poiché, sepolta ormai da secoli, conserva innumerevoli memorie storico-archeologiche in un ambiente non ancora interessato dalla crescita urbana. Nonostante noti archeologi (come ad esempio Giovan Battista De Rossi, Rodolfo Lanciani o Thomas Ashby) si siano interessati a questa area a partire dalla fine dell’800, essa è rimasta sostanzialmente sconosciuta. L’esempio dell’acquedotto degli Arcioni – protagonista assoluto di quest’ambito territoriale essendo tra l’altro l’unico acquedotto costruito su arcuazioni presente nella zona dei Colli Albani – risulta paradigmatico per il fatto che finora nessuno era riuscito a spiegare a che cosa servisse. Questa vistosa lacuna è stata finalmente colmata da una recente analisi del monumento della Dott.ssa Rosa de Santis che ne ha finalmente rivelato con esattezza la cronologia e la funzione, ponendo fine alle innumerevoli teorie fantasiose del passato.
L’acquedotto degli Arcioni
(Rosa de Santis)
La Valle degli Arcioni ha origine a Rocca di Papa, in località Pentima Stalla (m. 727 slm.), toponimo che allude al profondo precipizio nel quale iniziava a scorrere un torrente, ora prosciugato, tributario del Fosso dell’Acqua Mariana in località Squarciarelli (Grottaferrata). A Pentima Stalla convergono canalizzazioni antiche e recenti che convogliano la maggior parte delle copiose acque che provengono dal grande bacino idrico costituito dai Campi D’Annibale.
L’acquedotto dista circa 1,2 km da Pentima Stalla e si articola lungo undici campate con arcate che poggiano su dieci piloni di altezza decrescente e due strutture terminali, poste alle estremità, sulle quali poggiava lo speco, il cunicolo superiore dove scorreva l’acqua in prossimità dell’imbocco dei rispettivi tratti ipogei di alimentazione e drenaggio. Quest’opera venne eseguita per superare l’angusta valle denominata Arcioni, posta a nord di Rocca di Papa, che in questo modo viene attraversata ortogonalmente con orientamento est/nord est – ovest/sud ovest.
Lo stato di conservazione.
Attualmente l’acquedotto, immerso nella vegetazione boschiva, risulta per buona parte avvolto – soprattutto nella parte superiore – da piante rampicanti, in particolare dall’edera, assai sviluppate nel tempo e profondamente radicate nella struttura. Questo ha reso ancora più proibitiva l’analisi autoptica, per altro assai problematica a causa del pessimo stato di conservazione delle strutture.
Lo studio ha infatti incontrato difficoltà di ogni genere, dalle dimensioni dei piloni – pressoché informi e quasi totalmente privi del rivestimento (paramento) originale che di norma fornisce dati sulla cronologia – alle dimensioni stesse delle campate. Ogni altro elemento architettonico – dalle riseghe dei piloni all’imposta delle volte, alle ghiere quasi totalmente assenti – è stato ricostruito in base ai pochi dati frammentari a disposizione.
La storia degli studi
L’interesse degli studiosi per l’acquedotto della Valle degli Arcioni ha finora prodotto nell’insieme contributi generici spesso superficiali, comunque assai datati. Fatta eccezione per lo studio preliminare che appare negli appunti di R. Lanciani – come sempre rigoroso e di estrema utilità – nel resto dei casi disponiamo di poche e insufficienti descrizioni della struttura accanto a datazioni assai vaghe. A queste carenze, si aggiunge l’ambiguo collegamento di questo acquedotto con quello dell’Aqua Augusta, che si adombra soprattutto nell’opera di studi recenti, postulato dalla presenza dei famosi cinque cippi iugerali rinvenuti casualmente durante il dirado dei boschi, come riportato da G. B. de Rossi “…i cippi dell’augusta e la loro topografia sembrano avere relazione manifesta con un acquedotto che dagli estremi prati di Rocca Priora (nella Valle dell’Algido) costeggia il monte albano entro le macchie di rocca di Papa e volge il suo corso verso Palazzuola.
Anche il collegamento tra la sorgente di Pentima Stalla e l’Acqua Augusta desta molte perplessità. Dalla descrizione esatta del luogo in cui furono rinvenuti i cippi iugerali, cioè “agli estremi prati di Rocca Priora rivolti alla Valle dell’Algido”, cioè al Vivaro risulta infatti che essi erano sicuramente associati ad un altro acquedotto ben noto, le cui sorgenti sono altrettanto famose e si trovano proprio nel luogo descritto dal de Rossi, che corrisponde al Monte Ceraso. Sappiamo che da qui partiva un altro acquedotto che ricalcava la Valle Latina scendendo alle pendici di Tuscolo (oggi Acquedotto Aldobrandini, ancora in funzione).
La totale estraneità dell’acquedotto degli Arcioni – ma probabilmente anche della stessa Acqua Augusta – con Palazzolo (e la villa di Domiziano a Castel Gandolfo) è oggi assicurata con certezza dai dati altimetrici assoluti rilevati lungo tutta la Via dei Laghi, che costeggia il bordo del Lago Albano scendendo verso Marino. Infatti, la quota assoluta del cunicolo ove scorreva l’acqua (speco) dell’acquedotto degli Arcioni si aggira attorno a m. 515 slm., mentre quella della via dei Laghi all’ altezza di Palazzolo (tra l’altro distante 3,2 km in linea d’aria) risulta essere ben più alta: m. 587 slm.; lo stesso convento di Palazzolo, posizionato entro il cratere lacustre, fa registrare la quota di m. 538 slm.
A ciò si aggiunge, come vedremo, la tarda datazione dell’acquedotto degli Arcioni, del tutto incompatibile con quella dei cippi iugerali. A ben vedere, né de Rossi, né Lanciani e nemmeno Ashby, trattando dell’Acqua Augusta, hanno mai menzionato l’acquedotto degli Arcioni, tanto meno mettendolo in diretto rapporto con il tragitto dell’Augusta che secondo de Rossi “… dagli estremi prati di Rocca Priora (nella Valle dell’Algido) costeggia il monte albano entro le macchie di rocca di Papa e volge il suo corso verso Palazzuola”.
Acquedotto degli Arcioni – Prospetto laterale sud
* * *
Analisi tecnica del ponte degli Arcioni
I piloni e le arcate mostrano tra loro elementi costruttivi completamente diversi, per cui dovranno essere esaminati separatamente.
I piloni
La muratura è costituita da malta cementizia contenente scapoli di tufo grigio locale. In parete appaiono, a varie altezze, ricorsi di laterizi (bipedali = 60×60 cm. circa) impiegati come marcapiani durante le varie fasi della gettata. La forma rettangolare dei piloni è desunta da misurazioni dirette ottenute nei rarissimi casi in cui il paramento, anche se frammentario, si conserva in alcuni tratti, oppure attraverso il conteggio dei bipedali impiegati nei marcapiani. Per quanto riguarda la lunghezza dei piloni, questa misura è stata ottenuta direttamente, grazie al paramento in opera vittata mista che si conserva sui lati opposti del pilone n° 4 e corrisponde a m. 2,40 circa (8 piedi = m. 2, 37); essa viene confermata dal numero costante, registrato in tutti i piloni, di quattro bipedali formanti i marcapiani; la larghezza dei piloni si può dedurre invece solo dal conteggio dei bipedali, tre in ogni pilone, che corrispondono a circa m. 1,80 (6 piedi = m. 1,76).
La distanza tra i piloni è stata invece ottenuta direttamente, grazie alla conservazione del paramento inferiore in opera vittata dei due piloni adiacenti n° 3 e 4; essa corrisponde a circa m. 3, 60 (12 piedi = m. 3, 58). Questa misura, relativa a tutte le campate dell’acquedotto, viene verificata anche da misurazioni indirette, ottenute interpolando le distanze dei bipedali allineati nei marcapiani di piloni adiacenti.
Il paramento
Alla base di alcuni piloni si conservano tratti di rivestimento in opus vittatum eseguito con filari di blocchetti rettangolari dello stesso tufo grigio che appare nei caementa sopra menzionati.
Paramento in opus vittatum
Al di sopra di esso, fino all’imposta delle volte ed oltre, tra le ghiere e almeno fino all’altezza dell’estradosso, appare invece un altro tipo di paramento eseguito in opus vittatum mixtum che alterna i medesimi blocchetti rettangolari di tufo grigio a ricorsi di laterizi.
L’ipotesi più probabile è che il paramento inferiore sia stato realizzato per proteggere le superfici del pilone nel tratto interrato compreso tra la risega di fondazione e il piano di campagna.
Paramento eseguito in opus vittatum mixtum
Per quanto riguarda la distribuzione dei marcapiani di ciascun pilone, si è potuto osservare che non sempre viene rispettata, in altezza, la medesima distanza tra uno e l’altro. Ma ciò avviene di norma solo alla base e questo è dovuto al fatto che l’osservazione viene fatta su piloni posti ad altezze differenti per quanto riguarda le rispettive riseghe di fondazione. Al contrario, la distanza tra i marcapiani diventa regolare in ciascun pilone (attorno a circa m. 1,50 = 5 piedi) mano a mano che questi si avvicinano all’imposta delle arcate, come risulta evidente nei piloni più alti posti a cavallo dell’alveo (P. 6 e 7). Il rilievo eseguito con la livella del penultimo marcapiano di alcuni piloni (P 3, 4 e 5), gli unici accessibili in altezza, ha rivelato che essi si elevano esattamente alla stessa quota. Ciò significa che venne realizzato un primo livellamento di tutti i piloni dell’acquedotto sulla base del penultimo marcapiano, comune a tutti i piloni, in previsione di quello generale e definitivo realizzato superiormente all’imposta delle arcate.
All’esterno, i sei piloni centrali sono tra loro collegati alla base da speroni (P. 4, 5, 6; 7, 8, 9), dei quali rimangono solo dei monconi. Solo in un caso (P. 7) lo sperone si conserva integro sulla parete esterna, dove appare rivestito con paramento in opus vittatum mixtum così come il pilone a cui si addossa, formando con esso un angolo retto, rivelando in tal modo uno spessore minore dello sperone rispetto al pilone stesso, stimabile attorno ai 60 cm. circa (due piedi). E’ assai probabile che, in fase di costruzione, la fossa di fondazione dei sei piloni menzionati e quella dei rispettivi speroni fosse collegata attraverso lo scavo di un’unica trincea. In tal modo veniva assicurata maggiore stabilità nei punti più critici dell’acquedotto nella sua parte centrale, la più alta, evitando soprattutto, nel corso del tempo, la torsione lungo l’asse longitudinale dell’intero manufatto in fase di stabilizzazione delle malte.
Gli archi sono a tutto sesto, mentre la risega all’imposta delle volte – rivestita dall’ultimo marcapiano di bipedali – e quindi funzionale all’appoggio della centina, misura circa 30 cm. (1 piede). In tutti i casi si è osservato che l’imposta delle volte inizia ad un livello più alto rispetto ai sottostanti marcapiani terminali dei piloni, probabilmente per garantire l’alloggiamento frontale delle centine. Questa sorta di “colletto” che viene talvolta realizzato in opera mista oppure sovrapponendo bipedali integri alternati a spezzoni misura in altezza circa 25-30 cm.
Le arcate
Il precario stato di conservazione rivela, all’intradosso delle volte, la complessa fattura originale delle nervature poste a diretto contatto con la centina. A partire dal ricorso di bipedali superiore che delimita il “colletto” si osserva, al centro, e per tutto lo sviluppo della volta, una serie di laterizi sovrapposti, in gran parte ricavati da spezzoni di bipedali, larghi mediamente circa 20 cm. Di norma, una serie di bipedali disposti di taglio per tutta la larghezza della volta, interrompe la pila di spezzoni posti al centro composta normalmente da cinque laterizi.
In tal modo, il principale compito delle pile di spezzoni al centro dell’intradosso – che in qualche modo replicano la disposizione delle ghiere alle due estremità – era quello di spaziare con regolarità i ricorsi di bipedali che vi si appoggiavano, ma nel contempo, garantire soprattutto la loro posizione radiale e quindi trasmetterla ai laterizi della ghiera nei vari comparti.
Purtroppo delle ghiere rimangono pochissimi frammenti. Sappiamo che tra i laterizi che le formavano si inserivano i bipedali, per cui ciascuna ghiera doveva misurare frontalmente circa 60 cm., mentre solo in un caso del tutto eccezionale si osserva l’altra dimensione dei laterizi all’interno purtroppo inaccessibile. E’ probabile che ciascun laterizio della ghiera sia stato ritagliato da bipedale e che il suo lato minore corrisponda, a giudicare dalle proporzioni, ad un terzo di esso.
Questa complessa architettura di nervature e la conseguente suddivisione in comparti assicurava, da un lato, le varie fasi costruttive per quanto riguarda l’allettamento dei laterizi in ogni singola arcata; dall’altro, favoriva la staticità dell’acquedotto attraverso un minor impiego di malta, limitando e distribuendo le tensioni in fase di disarmo delle centine e, nel tempo, di quello della stabilizzazione delle malte.
Un altro dato riguarda il pilone n° 2. Nonostante si presenti assai danneggiato, si può osservare un’anomalia nel punto in cui convergono all’imposta le due ghiere relative alle arcate adiacenti I e II. Contrariamente a quanto si osserva in tutte le arcate, in questo caso non viene rispettato lo spazio tra le ghiere all’appoggio, che qui si presentano attaccate. Probabilmente erano sorti dei problemi di spazio per quanto riguarda collegamento tra l’arcata e l’appoggio terminale n° 1, evidentemente già costruito.
Infine, da notare la presenza, all’estradosso delle ghiere, di un ricorso di piccoli spezzoni di laterizi di colore giallognolo che in facciata appaiono di taglio e separano la ghiera dal paramento in opera mista, conferendo in tal modo un cromatismo intenzionale di evidente valore estetico.
Cronologia.
L’importante novità che deriva per la prima volta dallo studio dell’acquedotto della Valle degli Arcioni, riguarda la possibilità di istituire un puntuale confronto con l’acquedotto Alessandrino, sia per la fattura delle volte che per quanto riguarda le dimensioni in lunghezza dei piloni (8 piedi) che l’interasse tra le campate (12 piedi), ma anche per la presenza degli speroni alla base. Le differenze riguardano il paramento (in opera laterizia quello Alessandrino) e l’uso generalizzato del laterizio, spesso anche per i caementa presenti nel calcestruzzo; diversa anche la forma (a pianta quadrata) dei piloni dell’Alessandrino.
Infatti, nell’acquedotto Alessandrino la struttura delle volte, assai articolata per quanto riguarda le nervature, risulta del tutto identica a quelle realizzate nella Valle degli Arcioni – probabilmente in un periodo più tardo – da maestranze che evidentemente avevano ben chiara l’esperienza costruttiva dell’acquedotto Alessandrino, fatto edificare dall’imperatore Alessandro Severo nel 226 d.C. per alimentare le terme di Nerone in Campo Marzio.
Un altro elemento importante che conferma una datazione relativamente tarda riguarda la compresenza, nell’acquedotto degli Arcioni, di due tipi di paramento, rispettivamente eseguiti in opera vittata (per la parte interrata) e in opera vittata mista per l’alzato. Com’è noto, l’impiego dell’opera vittata, già nota nel II sec. d.C. aumenta progressivamente nei secoli successivi, fino a diventare assai diffusa tra la fine del III e soprattutto nel corso del IV secolo. Gli esempi sono innumerevoli sia in Italia che nel resto del mondo romano e ciò avviene anche in Roma e nel Lazio.
Per cui, dall’analisi delle strutture dell’acquedotto della Valle degli Arcioni, risulta evidente la sua totale estraneità al discusso, irrisolto e assai complesso problema della cd. Aqua Augusta, che ha coinvolto nella discussione i maggiori specialisti del passato.
Il problema dell’alimentazione idrica degli Arcioni
Da dove arrivava l’acqua?
Il primo pensiero va al grande bacino di Pentima Stalla. Qui veniva convogliata una quantità d’acqua enorme dal cratere dei Campi D’Annibale. Ma, per mantenere una pendenza costante (ad es. il 2%) un ipotetico cunicolo che fosse partito da Pentima Stalla (727 m. slm), per raggiungere le arcate degli Arcioni (515 m. slm) distanti circa 1,2 km in linea d’aria, doveva percorrere un percorso ozioso di almeno 10 km. Inoltre, per questioni legate all’altimetria, si può scartare l’idea che l’acqua arrivasse ad esempio da altre sorgenti, come quella del Ceraso, al Vivaro. Per ora l’ipotesi più probabile rimane quella della captazione diretta nella valle degli Arcioni, lungo il corso d’acqua, ad una quota appena superiore ai 515 m. slm. Una ricognizione lungo il torrente non ha trovato alcun riscontro, a causa della mutevole morfologia dell’alveo, assai sconvolto per le forti pressioni torrentizie.
Dove riversava l’acqua lo speco degli Arcioni?
L’impossibilità di risalire alle sorgenti che alimentavano l’acquedotto e, nel contempo, di conoscere il luogo di destinazione delle acque, hanno costituito finora un ostacolo assai arduo da superare. A suo tempo T. Ashby ipotizzò, a valle delle arcate, la direzione del flusso da est verso ovest e individuò, come destinazione finale delle acque, una grande cisterna posta nelle vicinanze, in località Grotte dell’Acqua. Per quanto riguarda la direzione del flusso, con la dovuta prudenza, è possibile ammettere che egli abbia ragione, poiché il declivio orientale della valle Arcioni, poco dopo l’acquedotto, registra una vallecola trasversale che avrebbe probabilmente costretto l’attraversamento sul versante opposto dello speco poggiante su arcate. Anche il rapporto tra la distanza e la quota di elevazione assoluta della cisterna di Grotte dell’Acqua rispetto a quella dell’acquedotto degli Arcioni sembrerebbe compatibile.
Dalle Grotte dell’Acqua all’Acqua Giulia?
In occasione della costruzione della linea tramviaria del 1905, nella zona al bivio tra Via delle Barozze e Via di Frascati, accanto al Fosso di Valle Oscura, a settentrione dello stesso, si rinvennero casualmente alcune strutture murarie attribuite ad un complesso residenziale ed a un tracciato stradale basolato; tra queste venne identificata una grande cisterna a due navate di cui sono note le dimensioni: m. 21,20 di lunghezza e m. 8 di larghezza; insieme alla cisterna, vennero segnalati anche lacerti di murature in opera reticolata. Furono indicati nella stessa area anche numerosi cunicoli.
L’acquedotto degli Arcioni venne costruito in età tarda per convogliare acqua pubblica. L’ipotesi più probabile a questo punto è quella che dalle Grotte dell’Acqua partisse un acquedotto ipogeo che collegava la grande cisterna con l’altro grande acquedotto pubblico, quello della Giulia, che a sua volta ha origine in località Squarciarelli (Grottaferrata). La necessità di potenziare l’Acqua Giulia in epoca tarda è stata recentemente messa in relazione con la costruzione delle Terme di Caracalla (216 d.C.), notoriamente alimentate da enormi flussi idrici provenienti da vari acquedotti. Probabilmente il grande complesso termale, che subì numerosi rifacimenti nel corso dei secoli, richiese sempre maggiori quantità d’acqua e ciò potrebbe spiegare la necessità di reperirla dai Colli Albani, nella Valle degli Arcioni, attraverso l’omonimo acquedotto collegato con la Giulia.