ARCHEOLOGIA

Monte Cavo. Scoperte tre necropoli e altrettanti abitati preromani

Recenti ritrovamenti di straordinario interesse storico – archeologico, sono stati effettuati in varie zone di Monte Cavo. I numerosi reperti venuti alla luce sono relativi ad antichissimi sepolcreti posti accanto ai rispettivi insediamenti capannicoli disseminati lungo la dorsale del monte, che documentano la straordinaria attività di genti vissute tra X e IX sec. a.C. in evidente rapporto con l’area sacra sommitale.

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Alcuni reperti relativi a tombe o industria litica

Essi occupano una fascia che abbraccia, più o meno alla stessa quota, tutto il monte, dalla zona dell’eliporto, agli edifici posti all’ingresso dell’Aeronautica, fino a via del Prato Fabio. In particolare lungo quest’ultima strada, è stato localizzato un insediamento che ha restituito alcune centinaia di reperti di uso domestico, accanto ai quali sono venuti alla luce numerosi oggetti relativi a vari corredi funebri. I preziosi ritrovamenti sono stati effettuati in seguito alle ricerche condotte da A. Masi, le cui segnalazioni hanno consentito che tutti i reperti dei siti menzionati siano ora conservati al Museo Civico di Albano, dove verranno restaurati ed esposti al pubblico e quindi presentati nei primi mesi dell’anno prossimo.

I Sacerdotes Cabenses
Questi nuovi ritrovamenti, accanto a quelli effettuato in passato nella zona, attestano una frequentazione dell’area dei Campi D’Annibale fin da tempi antichissimi. In accordo con quanto avviene in altre parti dei Colli Albani, la distribuzione sparsa attesta la tipica presenza di insediamenti che nell’insieme formano una curia (da co-viria= insieme di uomini). Ciò spiega che non è mai esistito un centro antico di nome Cabum, come spesso ipotizzato, ma, al contrario, una serie di villaggi, il più importante dei quali doveva essere sorto nell’area antistante l’ingresso principale dell’Aeronautica che dominava i Campi d’Annibale.

 

 

Sul piano storico, ciò conferma quanto ipotizzato sull’esistenza sulla vetta del Monte Albano, a partire dagli inizi dell’età del ferro, di culti antichissimi rivolti a divinità precedenti a Giove Laziale. In particolare, è sempre più evidente il ruolo dei cabensi fin dall’età protostorica, in rapporto all’area sacra posta all’interno dei loro territori. Successivamente (VIII sec. a.C.), con l’affermazione delle aristocrazie nel Lazio antico legata alla proprietà della terra, il rapporto dei cabensi con l’area sacra diventa ancora più stretto. Ciò spiega il motivo per cui, per i successivi millecinquecento anni, al collegio sacerdotale dei Sacerdotes Cabenses verrà conferito il diritto di officiare all’interno del più importante centro sacrale dei Latini per svolgere le necessarie attività di culto, sia sulla vetta che all’interno del bosco sacro che avvolgeva l’intero Monte Albano: luoghi questi il cui ingresso era tassativamente vietato a chiunque, poiché ciò era considerato una gravissima colpa per la quale erano previste pene severissime.

Il bosco sacro di Giove Laziale e la Sacra via.
Le numerose iscrizioni sui basoli ed anche sulle crepidini laterali che si incontrano sul tratto di strada che dal Prato Fabio porta fin sulla vetta, un unicum nel mondo romano, testimoniano lo scrupolo religiosissimo con cui furono restaurati 26 tratti di lastricato all’interno del bosco sacro, dove nulla poteva essere toccato, anche il più piccolo ramo caduta a terra, se ciò non fosse stato preceduto da opportuni sacrifici espiatori, come volevano le ferree leggi che disciplinavano i boschi sacri attraverso un’infinità di divieti e prescrizioni, la cui disobbedienza comportava pene severissime, addirittura quella capitale. Con la recente e fondamentale scoperta del bosco sacro di Giove, cadono numerosi luoghi comuni, così come i vari nomi attribuiti alla strada (via Sacra, via Trionfale, via dei Consoli, via del Nume, ecc.). Soprattutto, ora sappiamo che non era tutta una via sacra (si è sempre pensato che lo fosse perché conduceva all’area del tempio di Giove), ma che lo diventava, dal Prato Fabio fino alla vetta, nel momento stesso in cui entrava nel bosco sacro, dove ogni presenza sia vegetale che animale o di altra natura, era consacrata al dio.

Alba e il Monte Albano.
Cercata invano ovunque, intesa come realtà protourbana realmente esistita, Alba Longa è stata identificata in oltre dieci posti diversi – talvolta nei modi più impensati – dando vita ad una imponente produzione letteraria. Immaginata da sola, romanticamente immersa nel Lazio antico disabitato e selvaggio, ha ispirato la fantasia di studiosi e soprattutto di appassionati di ogni epoca.

 

 

Ma il notevole progresso degli studi, sia in campo storico che archeologico – ottenuto attraverso scavi sistematici in tutti i maggiori centri latini del Lazio, mentre anche sui Colli Albani le numerose scoperte hanno sufficientemente documentato le varie fasi della civiltà albana – ha definitivamente chiarito, attraverso inoppugnabili argomentazioni, che Alba Longa, intesa come “città” o più semplicemente come villaggio capannicolo protourbano, non è mai esistita.
Questa consapevolezza, unitamente alla difficoltà oggettiva di identificare uno spazio leggendario, ha spento da molto tempo l’interesse scientifico per Alba Longa; la grande “metropoli” che nessuno tra i romani aveva mai visto perché la tradizione la voleva distrutta molti secoli prima, è così caduta nel dimenticatoio.
Ma la recente scoperta del bosco sacro e del punto esatto della sua delimitazione sacrale alle pendici del Monte Albano (dove inizia la via Sacra, a partire dal Prato Fabio), ha definitivamente circoscritto con esattezza lo spazio leggendario di Alba, indicato dalle fonti antiche, in particolare da Tito Livio: alle pendici del Monte Albano, lungo la dorsale del monte.
Si scopre così che Alba (il promontorio di Prato Fabio) e il Monte Albano erano due realtà adiacenti, entrambe legate, fin dai primordi, al mondo albano, essendo poste al centro del loro territorio. Per secoli esse raccolsero le credenze religiose, le leggende ed i miti di quelle genti, diventando probabilmente la sede dei loro antenati mitici. Su questo substrato albano si sovrappose successivamente il mondo latino, mentre i due spazi venivano separati: la vetta divenne “la casa degli dei” e Alba la regia mitica, “la casa dei re”. In questa fase nasce la figura dominante di Latino, re di Alba, l’eponimo fondatore del nomen Latinum, venerato dopo la morte sulla vicina vetta come Giove Laziale, che divenne la divinità suprema dei Latini per oltre un millennio. Infine, con la dominazione romana, in età medio repubblicana, la leggenda di Alba Longa conclude questo ciclo mitico, sovrapponendosi a sua volta a quel mondo. Esattamente come ai tempi nostri, allora si credette che in quel luogo fosse fiorita mille anni prima una città antichissima, fondata da Ascanio figlio di Enea, a sua volta figlio di Venere, immaginandola cinta di mura, con palazzi e templi. Da allora, sono fiorite le numerose liste dei re albani, fino alla leggenda tra le più famose al mondo, quella di Romolo e Remo.

 

 

Ai nostri giorni, Monte Cavo (l’antico mons Albanus) appare devastato da centinaia di ripetitori, tra i quali figurano almeno 40 box da cui partono grovigli di fili e cavi che riempiono ogni spazio; i dintorni risultano disseminati da edifici abbandonati dai militari, che completano quello sfregio. La via Sacra e tutti i sentieri adiacenti sono infestati dai ciclisti ogni giorno della settimana, tranne il giorno in cui viene fatta qualche gara ciclistica a livello regionale intitolata “Via Sacra”. E’di questi giorni la notizia che il PAF comunale (piano di assestamento forestale) ha destinato la via Sacra e tutti i sentieri adiacenti a Bike Park.

Nel frattempo, da Parigi, Alexandre Grandazzi, professore alla Sorbona, autore di due volumi dedicati ad Alba Longa, ha definito in questi giorni questo schifo “una vergogna di dimensioni europee”.

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