AREE ARCHEOLOGICHE MUSEI

LE NAVI DI NEMI

 

Il recupero delle navi di Nemi fu voluto direttamente da Mussolini, che lo annunciò il 9 aprile 1927 in un discorso pronunciato alla Regia Società Romana di Storia Patria: “Un’altra grande impresa archeologica mi piace oggi annunziarvi come oramai decisa: il recupero delle due grandi navi romane sommerse nel lucido specchio nemorense”. 
Fra quanti rimasero conquistati dall’idea vi era anche un brillante ingegnere e colto umanista: Guido Ucelli, Consigliere Delegato e Direttore Generale della Società costruzioni meccaniche Riva di Milano, che produceva pompe e turbine idrauliche.
Guido Ucelli ed altri imprenditori offrirono gratuitamente al Governo italiano mezzi e mano d’ opera per l’operazione che venne condotta con grande rigore tecnico e scientifico e fornì un’occasione straordinaria per la conoscenza della tecnica navale romana.
Il resoconto del recupero, i rilievi, le indagini, le analisi furono poi pubblicati da Ucelli e da altri studiosi nel volume Le navi di Nemi, pubblicato in diverse edizioni dal Poligrafico e zecca dello Stato, a partire dal 1940. Il libro consente di ampliare la testimonianza diretta fornita dallo stesso Ucelli nel corso della conferenza tenuta in occasione dell’XI Congresso nazionale della Federazione dei Cavalieri del Lavoro, tenutosi a Firenze il 5 maggio 1932. Si racconta: ”Le centrifughe, adescate, si mettono in moto aspirando l’acqua del lago con quattro grandi tubazioni; i fiotti scroscianti rovesciati nella camera di scarico si riuniscono tumultuosi in un filone che imbocca l’emissario: il grande sogno secolare si avvera”… “Soldati del genio, manovali, muratori, meccanici, elettricisti, tutti lavorano a gara.!”… E’ davvero una grande impresa!

La leggenda dell’esistenza di due gigantesche navi sommerse sul fondo del lago, di grande sfarzo e forse custodi di favolosi tesori, veniva tramandata da secoli dagli abitanti del luogo e la tradizione locale era supportata anche da recuperi casuali effettuati dai pescatori: legname, chiodi, tegole di rame, lastre di piombo, che nel corso degli anni erano andati ad arricchire raccolte pubbliche e private, non solo in Italia. A partire dal tardo Medioevo si era tentato invano il recupero degli scafi: la mancanza di mezzi tecnici adeguati e di una sensibilità archeologica volta alla tutela avevano però avuto l’effetto di danneggiare più che di salvaguardare. Elenchiamo i principali tentativi.
Il primo intervento di cui abbiamo notizia viene promosso dal cardinale Prospero Colonna, signore di Nemi e di Genzano, appassionato cultore di testimonianze archeologiche che nel 1446 incarica l’artista e matematico Leon Battista Alberti di ripescare le due imbarcazioni.
Più interessante il tentativo compiuto nel 1535 dall’architetto bolognese Francesco De Marchi che si immerge nelle acque del lago protetto da un “istrumento” realizzato da un tale Guglielmo di Lorena. Nonostante le spoliazioni di strutture e ornamenti compiute nel corso dell’esplorazione, l’esperienza del De Marchi è importante per i rilievi e le osservazioni dirette degli scafi, poi riportati nella sua opera Della Architettura Militare.
Passano tre secoli: il 10 settembre 1827 il cavaliere Annesio Fusconi al cospetto di un folto pubblico, utilizzando una campana di Halley dotata di una pompa d’aria, raggiunge i relitti e asporta marmi, smalti, mosaici, frammenti di colonne metalliche, laterizi, chiodi. Il legname recuperato viene poi utilizzato per realizzare souvenir: bastoni, tabacchiere, cassettine da viaggio, libretti e ricordini. Il maltempo interrompe i lavori, il materiale recuperato viene depredato e il Fusconi abbandona l’impresa. Pubblica i risultati del suo lavoro in un volume dal curioso titolo Memoria archeologico-idraulica sulla nave dell’imperator Tiberio, pubblicato a Roma nel 1839.
Nel 1895 Eliseo Borghi intraprende una campagna di scavi con l’autorizzazione del Ministero della Pubblica Istruzione. Vengono riportati alla luce bellissimi bronzi, numerosi altri materiali e una gran quantità di legname; la maggior parte dei reperti viene poi acquistata dal Governo per il Museo Nazionale Romano.
L’opera del Borghi tuttavia assomiglia più ad un saccheggio che ad un’operazione archeologica: il Ministro della Pubblica Istruzione e quello della Marina colgono però l’occasione per valutare la possibilità di un recupero che salvaguardi gli scafi, già abbondantemente devastati.
Gli studi vengono affidati al tenente colonnello del Genio Navale ingegnere Vittorio Malfatti, che esegue fra l’altro un rilievo generale del lago ed esplora la parte accessibile dell’emissario.
Il Malfatti conclude che l’unica via attuabile sia l’abbassamento delle acque del lago, così da di porre in secco le due imbarcazioni.
Gli studi proseguono poi nei decenni seguenti, sotto la guida dello storico dell’arte Corrado Ricci.
Come già anticipato, l’opportunità si concretizza finalmente a seguito del discorso effettuato dal Duce il 9 aprile 1927.

L’intervento vero e proprio avviene con la riattivazione dell’emissario romano e il 20 ottobre 1928 viene messo in funzione l’impianto idraulico.
Il 28 marzo dell’anno seguente affiorano i resti della prima nave.
Emergono anche armi, monete, decorazioni, attrezzi, ami da pesca, chiavi; si annota la posizione di ogni reperto, si analizza ogni particolare, come si può vedere nel disegno del timone. Il 7 settembre, abbassato il livello delle acque di ben ventidue metri, la prima nave risulta completamente emersa e alla fine del gennaio 1930 affiora anche la seconda; il primo scafo misura 71 metri in lunghezza e 20 in larghezza; il secondo 75 metri in lunghezza e 29 in larghezza.
In un primo tempo le navi vengono ricoverate sulla riva del lago, protette da teloni bagnati che evitano un’eccessiva essicazione del legno e da un hangar per dirigibili.
Successivamente viene costruito il Museo delle Navi romane, progettato dall’architetto Vittorio Morpurgo.
Nel 1935 le strutture principali sono pressoché ultimate, ad esclusione della parete anteriore dell’edificio, fu terminata solo dopo il traino dei giganteschi relitti all’interno dell’edificio. 
Il 18 novembre 1935 la prima nave si trova collocata sulla platea della navata destra ed il giorno 20 gennaio 1936 anche la seconda viene sistemata nel suo definitivo ricovero.
Il museo viene inaugurato il 21 aprile 1940.

Malgrado le ingenue speranze del grande pubblico, che aspetta di veder emergere dalle acque ori e gioielli favolosi, quello che viene riportato alla luce è un vero tesoro di conoscenze, di cui fa un sommario riassunto il professor Giorgio Rabbeno nel discorso pronunciato per l’inaugurazione dell’anno accademico 1950-51 all’Università degli Studi di Trieste. Egli scrive: “La sorpresa iniziale si ebbe a colpo d’occhio, verificando le dimensioni degli scafi… mirabilissimo il rivestimento della carena…La suggestione di essere retroceduto di due millenni fu vivissima…”.

Nonostante le ripetute spoliazioni, le navi mantengono intatta la loro imponenza: essendosi conservata la cosiddetta opera viva (la parte immersa dello scafo) è possibile apprezzarne i dettagli costruttivi e gli elementi strutturali ed il ritrovamento rivoluziona le conoscenze della tecnica navale romana.
Grazie ad alcune epigrafi è possibile datare gli scafi all’epoca dell’imperatore Caligola (37-41 d C): la grandiosità delle imbarcazioni, la ricercatezza delle decorazioni e degli arredi, le stesse vicende personali dell’imperatore hanno fatto ritenere a lungo che le navi fossero luoghi di festa e di piacere. Oggi l’ipotesi più accreditata è che si trattasse di navi cerimoniali, destinate alla celebrazione di feste religiose, in linea con il carattere sacro del luogo.

Sul ponte delle due navi si ergeva un ricco complesso di edifici e di strutture, di cui sono stati recuperati innumerevoli reperti.
A colpire gli esperti sono soprattutto le soluzioni tecniche: piattaforme circolari girevoli su sfere di bronzo: un sistema che anticipa i cuscinetti a sfere, un complesso impianto idraulico per il prosciugamento della sentina, con pompe, tubazioni e un grande rubinetto in bronzo lavorato con tale precisione da far ipotizzare l’uso di un tornio meccanico. 
Le caratteristiche tecniche di questo rubinetto daranno luogo all’appassionata  lettera di difesa scritta dall’ingegner E. Macchi a Guglielmo Marconi, allorché si deciderà di non includere il reperto fra gli oggetti da inviare all’esposizione di Chicago del 1933 . Scrive il Macchi: il rubinetto nemorense “rappresenta a mio modesto avviso una dimostrazione della multiformità del genio latino da offrire al pubblico che affluirà all’esposizione di Chicago, a maggior lustro e decoro della Patria nostra!”.

L’archeologia marinara trovò un tesoro inestimabile nelle due grandi ancore: la prima in legno con ceppo in piombo della lunghezza di 5 mt rappresenta l’unico esemplare completo conosciuto all’epoca di questo tipo. La seconda, in ferro a ceppo riscuote un incredibile interesse dal momento che si credeva ideata dal capitano inglese Rodger e che era stata presentata all’Esposizione del 1851 come una grande novità.

Purtroppo, le due imbarcazioni, uniche per importanza e stato di conservazione, bruciano completamente la notte del 31 maggio 1944, nel corso della ritirata dell’esercito tedesco dai territori circostanti Roma. Testimonianze dirette dell’accaduto e ipotesi sulle cause sono contenute nello stralcio dalla relazione presentata al Ministro per la Pubblica Istruzione dalla commissione incaricata di accertare i fatti. Qui riportiamo brevemente i fatti.
Per accertare le cause del rogo viene istituita una Commissione di cui fanno parte architetti, ingegneri, il comandante dei vigili del fuoco e un esperto di artiglieria. Sono ascoltati i custodi, testimoni diretti degli avvenimenti: nei giorni precedenti una batteria di artiglieria tedesca si era posizionata nei pressi dell’edificio con quattro cannoni; i soldati si erano sistemati all’interno del Museo ed erano stati allontanati i custodi e le loro famiglie. Nei giorni seguenti, l’aviazione anglo-americana aveva bombardato la zona, provocando qualche danno alle strutture, ma nessun incendio. I bombardamenti si erano ripetuti anche la mattina del 31 maggio ed in serata si era svolto un furioso cannoneggiamento della zona. 
Riferisce il custode capoposto Giacomo Cinelli: “Molti sono i proiettili che cadono ai dintorni del Museo e sopra i capannoni, senza però incendiare le preziose navi”.
Il cannoneggiamento era terminato alle ore 20.15 circa.
Un’ora più tardi lo stesso Cinelli notava un lume vagare all’interno dell’edificio.
Alle ventidue – quasi due ore dopo il termine del bombardamento – era divampato l’incendio, che aveva assunto immediatamente vaste proporzioni.
Gli scafi, le ancore, un timone alcune imbarcazioni più piccole andarono completamente distrutti. Si salvarono i reperti artistici e tutto il materiale trasportabile, che era stato precedentemente portato al sicuro a Roma. La Commissione arrivò ad escludere che l’incendio fosse stato provocato da bombe di aviazione e da proiettili d’artiglieria, concluse che l’incendio degli scafi e dell’edificio fosse di origine dolosa, considerati anche i danneggiamenti volontari inflitti dai soldati tedeschi al patrimonio archeologico del Museo e il mancato utilizzo dei sistemi di spegnimento in dotazione.

Così furono distrutte testimonianze archeologiche uniche per importanza e stato di conservazione.
Oggi ci rimangono fotografie e pubblicazioni che ci ricordano questa gloriosa, ma sfortunata impresa.

 

(Ex: http://www.museoscienza.org)

 

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